A cura della dottoressa Gigliola Braga
Forse qualcuno si stupirà sapendo che il primo a parlare di dieta mediterranea non fu un italiano né un abitante dei Paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo, ma un americano, Ancel Keys.
Nel lontano 1992, a Boston, durante un convegno, il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense pensò di realizzare le linee guida dietetiche per fronteggiare il crescente pericolo di malattie cardiovascolari e la drammatica tendenza a ingrassare che già da tempo affliggeva non solo l’America, ma anche i Paesi cosiddetti industrializzati. In quella sede ebbero influenza gli studi di Keys che, agli inizi degli anni ’50, ipotizzò i benefici della dieta utilizzata dai popoli del Mediterraneo, i quali usavano pochi grassi saturi, preferendo l’olio d’oliva, consumavano cereali integrali come pane e pasta variamente condita, mangiavano frutta fresca al posto di dolci, verdura e piccole porzioni di pesce, carni e latticini; talvolta anche un bicchiere di vino. Keys si ispirò alla sua esperienza diretta nel dopoguerra nelle piccole trattorie di Napoli e si convinse, diffondendo l’informazione, che questa dieta poteva preservare dalle malattie cardiovascolari che sembravano espandersi in modo epidemico negli USA, ma non nella città partenopea.
Lo studio condotto sempre in quel periodo sull’isola di Creta, perla del Mediterraneo, sembrò confermare le sue teorie. Secondo i suoi autori, la longevità e la scarsità delle patologie cardiovascolari che caratterizzavano gli abitanti dell’isola potevano essere attribuite alla loro alimentazione povera di grassi saturi. Si diceva che mangiassero soprattutto i cibi più disponibili, cioè i pesci, la verdura, la frutta, il pane integrale, il vino e prevalentemente l’olio d’oliva, smentendo in questo modo la più comune credenza di allora che vedeva nei grassi di qualsiasi tipo un pericolo per la salute. Il 40% della loro dieta era infatti costituita da grassi di tipo monoinsaturo (olio d’oliva) e da grassi insaturi contenuti nei pesci (omega-3).
Keys si impegnò successivamente nello Studio in sette paesi che però fu molto criticato perché non sufficientemente rigoroso: si riferiva infatti a una realtà parziale, in cui vennero prese in considerazione popolazioni particolarmente adatte a dimostrare l’esattezza della sua tesi. In più, tali popoli non potevano rappresentare il prototipo dell’effettiva dieta mediterranea, disponendo di una eterogeneità di popolazioni e di cibi che non venne sufficientemente considerata. Tuttavia, le sue conclusioni fecero scalpore, non tanto per quanto effettivamente sembravano dimostrare, cioè i benefici derivanti dalla limitazione dei grassi saturi, ma per l’idea nutrizionale complessiva proposta da questa dieta.
Molti esperti di allora furono comunque influenzati da tali conclusioni, tra cui quelli intervenuti a Boston nel 1992 che coniarono la piramide della dieta mediterranea adottata nei decenni successivi praticamente da tutti i Paesi cosiddetti industrializzati, compresa l’Italia. Per la sua formulazione costoro, com’era d’uso allora e parzialmente ancora oggi, si concentrarono sulle calorie e di conseguenza collocarono i grassi in cima alla piramide perché, essendo molto calorici, andavano usati con la massima moderazione. Subito sotto posizionarono le proteine per il loro alto contenuto di grassi saturi potenzialmente dannosi per la salute. A seguire, più in basso, collocarono la frutta e la verdura per l’importante apporto di vitamine, fibre e minerali che questi alimenti garantiscono. Tra i macronutrienti, rimasero così i carboidrati, che finirono di conseguenza alla base della piramide, diventando i maggiori componenti della dieta consigliata. Da ciò derivò l’implicita, ma non dichiarata, conclusione che i carboidrati non solo fossero innocui, ma addirittura garanti della salute. D’altronde il messaggio era tanto semplice quanto chiaro: attenzione ai grassi e alle proteine, via libera ai carboidrati.
Non furono pochi i nutrizionisti perplessi sulla reale attendibilità di questa piramide alimentare poiché sapevano che non tutti i grassi sono uguali dal punto di vista nutrizionale. Vi fu anche qualche sospetto sull’ingerenza di interessi economici avulsi dalla salute pubblica nella stesura di queste indicazioni, in quanto non esisteva nessuna dimostrazione del giovamento per l’organismo di una consistente quota di carboidrati; inoltre, nessuno studio aveva evidenziato i benefici a lungo termine di una dieta a basso contenuto di grassi. Tuttavia, le raccomandazioni di questa piramide furono subito accolte dall’industria alimentare che prontamente sfornò biscotti, merendine e cereali con pochi grassi e poche calorie, ma ricchi di carboidrati. Vennero messe a fuoco anche altre criticità perché a Boston, sorprendentemente, non vennero considerate le mutate condizioni di vita tra le popolazioni ispiratrici del dopoguerra, prevalentemente agricole e non industrializzate, e quelle di quarant’anni dopo, periodo in cui quella piramide nutrizionale mediterranea venne elaborata. Non si tenne neppure conto della differenza sostanziale intervenuta nel tempo sui cibi diventati sempre più raffinati, alterati, processati e con un impatto metabolico molto diverso. Senza contare che venne dato un valore esagerato alle calorie che, pur essendo degne di considerazione, non possono essere così determinanti in una valutazione dietetica. Bisogna infatti distinguere da dove provengono, se dai carboidrati, dalle proteine o dai grassi. Questi ultimi ne forniscono di più, addirittura il doppio rispetto ai carboidrati e alle proteine (1g di carboidrati = 4,1 cal; 1g di proteine = 4,1 cal; 1g di grassi = 9,1 cal) ma ciò non autorizza ad additarli come i responsabili del crescente aumento di peso e di patologie di intere popolazioni che, su queste indicazioni, negli ultimi decenni hanno dichiarato guerra ai lipidi e alle calorie senza però riuscire a risolvere i loro problemi di salute pubblica. Lo dimostrano in modo plateale gli Stati Uniti e molti altri Paesi che oggi non sono ancora riusciti a risolvere il grave problema dell’obesità e del sovrappeso, condizioni addirittura in aumento e che si rivelano onerose dal punto di vista sia sanitario, per le patologie metaboliche cosiddette del benessere (ipertensione, cardiopatie, diabete, ecc.) che ne derivano, sia economico, per le pesanti spese sociali che implicano.
Purtroppo, l’Italia non è risultata immune da questi rischi e anzi è tuttora in grande allarme per il dilagare del sovrappeso e dell’obesità, reso ancor più preoccupante dal fatto che coinvolge ormai anche le generazioni più giovani.Da molto tempo deteniamo infatti il triste primato di avere i bambini più grassi d’Europa.
Alla luce dell’esperimento epidemiologico attuato in questi decenni su larga scala e in base agli studi che, nel frattempo, hanno aumentato ulteriormente le nostre conoscenze, allo stato attuale, possiamo affermare che quella piramide alimentare mediterranea di Boston, tuttora seguita nei Paesi industrializzati, sia valida per certi aspetti, ma sia da rivalutare per altri, tra cui spiccano alcuni temi già allora ritenuti discutibili.
Gli studi di Keys sulla necessità di limitare i grassi saturi sono stati confermati e anzi, si sono ampliati definendo la loro responsabilità diretta nell’aumento di quell’infiammazione cellulare che predispone ad alcune patologie del benessere. Bisogna quindi consumarne il meno possibile evitando le parti grasse di origine animale per esempio nelle carni, ma anche i grassi saturi vegetali di oli come quello di palma.
Per quanto riguarda il computo calorico nella definizione di una dieta salutare, oggi si sa essere molto riduttivo per l’indiscriminata valutazione dei grassi, indipendentemente dal loro valore biologico e metabolico, come avevano temuto alcuni esperti di allora. Certi grassi sono indispensabili alla vita come gli omega-3 (presenti in molti pesci), altri come i saturi e gli omega-6 (presenti in larga parte negli oli di semi) possono procurare problemi. Inoltre, occorre considerare che le proteine e i carboidrati, pur apportando lo stesso numero di calorie, stimolano una risposta metabolica ben diversa, addirittura opposta: ignorare questo aspetto, oggi ben conosciuto, porta a conclusioni fuorvianti.
L’ampio spazio riservato alla verdura e alla frutta in quella piramide, trova oggi ampi consensi confermando le motivazioni di allora e, aggiungendone altre, come quelle riguardanti la presenza nel mondo vegetale dei polifenoli che non proteggono solo le piante, ma anche l’uomo: maggiore è il consumo di tali alimenti, maggiori sono i benefici. Anzi, proprio la verdura e la frutta potrebbero essere posizionate alla base della nuova piramide alimentare mediterranea poiché costituiscono la migliore fonte di carboidrati al posto di pane, pasta, riso, cracker e fette biscottate che, oltre a essere cibi più processati dei naturali e meno ricchi di micronutrienti, sono molto densi e quindi rischiano di apportare all’organismo molti più carboidrati del necessario. Tuttora non esiste alcuno studio in grado di dimostrare il bisogno per la salute dell’uomo di tutti i carboidrati alla base della dieta mediterranea. Anzi, oggi si sa che proprio loro, se usati in eccesso, aumentano la massa grassa e l’infiammazione cellulare che la dieta dovrebbe tenere a bada invece di provocare; sono inoltre in grado di predisporre al diabete di tipo 2 o alimentare e creare dislipidemie a carico del colesterolo e dei trigliceridi.
La dieta mediterranea comprende alimenti molto salutari (verdura, frutta, pesci, olio extra vergine d’oliva, ecc.) che nei Paesi del bacino mediterraneo abbondano e sono di qualità, ma rispetto a quella originaria va corretta dove sbaglia, cioè nell’eccesso di carboidrati che implicitamente consiglia. In futuro affronteremo altri aspetti interessanti a tal proposito.